mercoledì 22 dicembre 2010

La signorina Trinciabue

Mi perderei ore a leggere i racconti di EmaTocrito dei Los Lobos della Bassa.

Mi piace il suo modo di trasfigurare gli eventi facendoli diventare allucinazioni e miraggi ... peccato il fondo nero del blog, ma ne parlerò con Spiedo di questo, che alla fine mi rende veramente allucinato ...

Allora stavolta lo copio così anche qui lo si può leggere, in tutto il suo splendore.


"La serie di garette fra amici denominata SingolCross inizia a mostrare un profilo inquietante: gli scenari apocalittici della bassa modenese fanno da quinta ad una rappresentazione psicorrorifica dell’espressione “garetta fra amici”.
Ma andiamo per ordine.
La location, come direbbero gli anglosassoni evoluti: una porzione di terreno stretta fra una tangenziale a nord un cimitero ad ovest, una ridente fucina di piastrelle ad est e a sud, forse a sud, ma potrei sbagliarmi un altrettanto ridente circolo per anziani intitolato ad Antonio Gramsci.
Ci sono tutti gli ingredienti per iniziare.
Ah! dimenticavo un camioncino utilizzato come ostacolo: l’impavido ciclocrossista deve ardimentosamente entrare nella pancia del mezzo per uscirne, mondato e riflessivo, dal suo posteriore: la metafora peristaltica non richiede di essere ulteriormente approfondita.

Siamo tutti figli delle merci, la logistica è la nuova religione del millennio, e aggiungerei, sta finendo l’anno dell’amore, e di amore ne abbiamo visto poco durante la gara.


Ma procediamo con ordine.

Pronti via e spatapam, il ferino istinto prende il sopravvento.
Mi sto producendo in una imperiosa partenza, tutto sotto controllo, smadonno per agganciare il piede destro, ma pompo con vigore indomito, prima curva supero alcuni ciclisti, (dieci, forse venti o trenta, magari pure quaranta), si tratta di una garetta fra amici, mentre supero il centesimo ciclista alzo il dito medio, in segno di saluto amichevole, in segno di palese superiorità alzo entrambe le mani medio-munite.
Sono tutti, i duecento ciclisti, soggiogati dalla mia forza esplosiva, capiscono che sono il ciclista alfa della giornata: poi, all’arrivo, deciderò cosa fare dei loro testicoli, loro lo sanno.


Svanirà tutto nel breve attimo che precede la caduta.


Un energumeno peloso, abbigliato con una insensata casacca oversize di una qualche legione nordico polare aggredisce la curva con virile violenza, sbando allargo la traiettoria per evitare il contatto con il throll impazzito: è l’inizio della fine.

Allarga tu che mi allargo io, finisco avvinto alla fettuccia, il losco figuro peloso passa irridendo la mia virilità. Non ci bado ormai la laocontica tenzone è con la fetida banda colorata.

Sì perché nella concitazione della lotta, la bici, infido destriero si imbizzarrisce, ruota impazzita su se stessa e mi disarciona.

Mi rialzo, e cerco di ripartire, in lontananza vedo sfilare il gruppo, risate crasse ed oscene iniziano ad alzarsi all’orizzonte.

E’ solo l’inizio.
Scopro che gli umani non hanno cuore ma le cose sì.
La fettuccia, femmina per destino, si avvinghia al manubrio, più cerco di allontanarmene più ella si attorciglia.
Passano minuti, forse ore, magari giorni, ma non c’è modo di districare il gordiano nodo. Sono dentro al cubo di Rubik, al labirinto di Knosso, perso nella foresta amazzonica, sperduto fra foreste pluviali.
Tento più volte di liberare il mezzo, ma inutilmente.
Provo a tirare, a strappare, alzo gli occhi e da lontano vedo lo sguardo attento di Carlo e capisco, pur se ha le labbra serrate, che mi sta dicendo: “non ti provare a strappare la mia fettuccia che ti spello vivo!”.
Capisco, provo per altri infinti eoni e finalmente mi divincolo dalla fettuccia famelica.
Ci sputo sopra alla fettuccia e in preda a panico furore la irroro con una colossale pisciata.

Alzo gli occhi al cielo, come a guadare in faccia la divinità, urlo frasi sconnesse e risalgo sulla bicicletta ormai libera.
Riparto allegro e felice di non aver rotto la fettuccia e mi metto di buona lena a pedalare.
Ma sono ignaro, so di non sapere, anzi non so di non sapere che l’orrore si paleserà pochi minuti dopo al controllo giri.

Passo e dimentico di dire il mio numero, una voce virile e possente mi disarticola le vertebre “il numero, che numero sei, devi dirmi li numero, se non mi dici il numero non ti conto il giro e ti spacco tutte le braccine e pure le rotule e anche il femore!”.
Mi giro ed ho una visione: la signorina Trinciabue, vestita come le vallette procaci del DriveIn. Collasso, mi sciolgo sulla bici e con un filo di voce dico 33. Non faccio tempo a pronunciare le mediche cifre che mi arriva uno smataflone sul coppino, una schicchera portentosa. “Cerchi di fare il furbo, lo sò bene il tuo numero, non ci provare più, la prossima volta ti strappo le orecchie e mi ci faccio una collana per il capodanno al circolo Fratelli Cervi”.

Con un filo di voce dico. “ si padrona, sarò più buono la prossima volta”.
Riprendo a pedalare, ma ormai ho capito che si tratta di una gara per sopravvivere.
Concludo il giro ed in prossimità del controllo mi assale il panico, rallento scendo dalla bici, faccio finta di nulla, cerco di darmi un contegno e mi avvio verso il bar del vicino centro volontari del soccorso, per chiedere soccorso, ovviamente!
Entro chiedo un caffè e mi slaccio il casco, sto per prendere la tazzina fumante, un dolore atroce al lobo destro mi immobilizza: “ah fetida caccaccia pusillanime, cercavi di farla franca…” capisco è lei la signorina Trinciabue.
No dico io, signorina Trinciabue, avevo bisogno di un caffettino, e poi volevo vedere i numeri del lotto sa, ieri sera ho giocato due euro ambo secco sulla ruota di Bologna.
La signorina Trinciabue non ama il gioco d’azzardo. Il mio lobo destro ormai ha acquisito la dimensione dell’orecchio di Dumbo. Vengo trascinato nuovamente sul campo di gara, gettato sulla bicicletta e spinto via come uno straccio inutile. “Numero caccaccia pusillanime, che numero hai?”
Dodici! Come gli apostoli.
La voglia di pedalare si è molto fiaccata. Avanzo a fatica, ma il destino mi riporta al controllo. Accellero, cerco di dare tutto ma nel fare questa insensata azione, mi dimentico, sopraffatto dalla fatica, di dire il mio numero.
Supero il controllo e non sento nessuna voce, vai è fatta mi dico, la signorina Trinciabue non si è accorta di me. Insisto nell’azione, mi allontano vieppiù sorrido serafico, toc toc, strano mi dico non ci sono porte, portoni, portali nei paraggi, toc toc, il dolore al costato si fa più forte, faccio per voltarmi e sento l’alito incandescente della signorina Trinciabue che mi fona i capelli. Incremento la cadenza, viaggio ormai sopra le 90 pedalate, come la paura, e lei la signorina Trinciabune mi si affianca, con il megafono in una mano e il foglio del controllo numeri nell’altra, cammina di buon passo, procediamo affiancati per decine di metri, io sempre più ansimante, lei tranquilla. “Allora caccaccia pusillanime, me lo vuoi dire il numero?”.
118 provo magari lo chiamano mi faccio ricoverare e finisce tutto, mi sedano per due settimane, magari. 113 magari la arrestano, penso. Mi arriva una megafonata sul casco, sono totalmente rintronato, vedo chiaramente AlfaCentauri, Orione e pure gli anelli di Saturno, chiarissimi. Dodici, come gli apostoli. “Vai caccaccia pusillanime, vai e non ci provare più con me non attacca, ti strappo tutte le dita e ci gioco a shangai!”.

Vado.
Pedalo sempre più lentamente, ho paura, salto l’ultima barriera, mi attende il passaggio nel furgone e poi…la signorina Trinciabue.
La vedo rallento ancora l’andatura la vedo sempre più vicina, immensa, mi fermo, saluto con deferenza e cerco di intavolare un discorso.

Il sudore cola copioso da ogni poro. “Salve, ma ci siamo già visti a qualche festa dell’unità, signorina?” Sleng, il rumore osseo della mandibola che si flette mi fa vacillare. “Io non vado alle feste dell’unità, caccaccia pusillanime…”.
Ho molto male alla mandibola, ma cerco di non svenire, mi concetnro su qualche immagine positiva, vedo in lontannza il muro che delimita il campo santo, immagino che presto verrò tumulato, un lungo corteo di bici tutte rigorosamente in acciaio, seguiranno il mio feretro, e Zullo sarà chiamato a pronunciare la solenne orazione funebre.

Mi perdo nei miei pensieri e arriva come un sibilo lo schiaffo del soldato, sento un clock, penso che l’articolazione della spalla sia uscita dalla sua sede.
“Me lo vuoi dire il numero, o devo triturati le ossa e ridurtele in polvere così sottile che la Elide e la Jole, le potrebbero utilizzare come cipria per la festa delle pesche nettarine”.

Dodici, come gli apostoli!


Ultimo giro passo, tutti si fermano e anch’io rallento. “Tu no caccaccia pusillanime, tu devi fare ancora 35 giri, caccaccia pusillanime.”

Provo a contrattare per 24, ma la signorina Trinciabue ha argomenti, non mi resta che proseguire.

Tutti si fermano e io giro.
Tutti ripongono le loro bici e io giro.
Ormai è buio continuo a girare ho paura non vedo più nulla ma sò che da qualche parte la signorina Trinciabue mi sta guardando.


Buon Natale, l’anno dell’amore va a chiudersi, è tempo di bilanci.

Buon Natale anche a lei signorina Trinciabue.


In lontananza intravedo il fumo biancastro che si leva lento e compatto da una ciminiera bianca, forse, penso perplesso la signorina Trinciabue sta preparando le crostate per la festa.

Buon Natale signorina Trinciabue."

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