lunedì 19 aprile 2010

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A volte mi capita di aver bisogno di un reboot ... fisico.

E' come se il mio essere, corpo e mente assieme, mi chiedessero di essere rimessi in ordine, di ripartire da zero.

Allora mi "devasto" in qualcosa di così stancante fisicamente, di così forte da annullarmi, resettarmi e ripartire come nuovo.

La sensazione che provo è fantastica ... certo non devo abusarne !

martedì 13 aprile 2010

Non ti scordar di me

Alcuni giorni fa ho aiutato il nonno Enrico a mettere in formato digitale, leggi scrivere con un computer, alcuni suoi ricordi, finiti poi sul libro dedicato a Rovato.

Quale occasione più ghiotta di un copia e incolla interessante.
Ne riporto una parte triste e ironica insieme, in pieno stile del nonno Enrico.

Buona lettura.

"Dell’operazione di stacco degli scarfòi dai canù, scarfuià, appunto, ricordo le tiepide sere di settembre, sotto il portico al chiarore di una pallida luna.

Attorno alla lunga catasta di pannocchie, scaricate dai carri durante il giorno ci sedavamo tutti in cerchio, uomini, donne, ragazzi e bambini. Si raccontavano storie, si rideva, talvolta si intonava un canto. Poi, man mano che la catasta delle pannocchie diminuiva da una parte, la montagna dei gialli canù e quella dei soffici scarfòi dall’altra crescevano.

Sbocciavano i primi amori. Teneri baci languide carezze.

Talvolta si udiva nella notte chiara il lugubre canto del cuculo, el ciòt. Un brivido ci assaliva. Dicevano che quando il cuculo viene a posarsi sul tetto di una casa, entro tre settimane, in quella casa ci sarà un funerale.

Come erano frequenti allora i funerali! Specialmente quello dei bambini: gli ubitì.

Ricordo quelle piccole bare bianche cosparse di fiori. Dietro, il corteo dei bambini con un piccolo mazzo di fiori colti nei prati. Poi, al cimitero, i fiori venivano gettati nella fossa, sulla piccola bara con una manciata di terra.

Tutto era triste ma non straziante. La madre accompagnava il piccolo corteo fin sulla strada, poi tornava in casa perché era ancora convalescente per il recente parto; talvolta portava già in grembo la nuova creatura. Aveva già trasferito a questa il suo amore.

Altra cosa era il funerale degli adulti. Suggestivo; talvolta spettacolare.

Se poi il DE CUIUS era persona molto anziana che era lì da molto tempo pieno di acciacchi, en giande, la cosa poteva risultare anche non troppo triste.

Il colore predominante era il viola, il colore delle melanzane.

Da noi questa solanacea non veniva coltivata perché, dicevano, porta male. Ora per la mesta cerimonia i colori di rito sono cambiati e le melanzane sono riapparse nei nostri orti. Però le nostre donne non hanno ancora imparato a cucinarle. Questa è un’altra storia.

Ma torniamo alla mesta cerimonia.

Il numero dei cavalli del carro funebre era uno, due o quattro a seconda delle possibilità del DE CUIUS, ma tutti col pennacchio rosso e la gualdrappa nera. Neri e viola con fregi d’oro e d’argento erano pure gli addobbi ed i paramenti del celebrante. La bara era portata in spalla dagli amici.

Nulla, proprio nulla a che vedere con le pompe funebri dei tempi moderni.

Sei becchini per reggere la bara. Quattro titolari; due da utilizzare nel caso di un feretro in sovrappeso. Il vestito dei quattro più due è scuro. Sono ben pettinati; volto atteggiato al sorriso. Non seri, potrebbe sembrare una cosa triste.

Il corpo mortale, subito dopo il trapasso, viene lavato, pettinato, vestito della festa. Il pallore della morte, con appositi balsami, trasformato in abbronzatura. Volto atteggiato ad un lieve sorriso. Gli amici a guardarlo non possono che bisbigliare:” il corpo è lì ma l’anima è già in paradiso”.

Per i colori, anche se il colore delle viole è bandito, c’è un ampia possibilità di scelta: il fior dei lillà, dei ciclamini, dei giaggioli, ecc…..

Io vado spesso col pensiero alla mia fatal quiete, al mio funerale, cioè el me obét ( il termine dialettale viene dal latino e significa oblio).

Penso alla cerimonia, agli amici, ai parenti e vorrei che il colore fosse quello dei NON-TI-SCORDAR-DI-ME."